La preadolescenza: il diritto di vivere nella terra di mezzo

25 Luglio , 2012 by

Sintesi dell’intervento della dott.ssa Fatima Uccellini, Psicologa dell’età evolutiva, Psicodiagnosta,
Mediatore Familiare S.I.Me.F, Didatta S.I.Me.F. nell’ambito del ciclo di seminari organizzati da
Genitoriche “Genitori e figli: legami da svelare. Quali strumenti a disposizione dei genitori?”
 
 

Si definisce preadolescenza la fascia di età che va tra i 9 e i 12 anni, sebbene,
come per tutte le tappe evolutive, siano possibili diverse oscillazioni. È l’età di un
mutamento che coinvolge il corpo, l’identità, le esperienze, la sfera emotiva.
Come ogni fase dell’età evolutiva, la preadolescenza ha dei compiti di sviluppo
ben definiti e che per il bambino comportano impegno, stress e fatica: innanzitutto,
le relazioni con i coetanei (del proprio e, in misura crescente, anche dell’altro sesso),
l’acquisizione del ruolo sociale maschile e femminile (che va a rafforzare e connotare
sempre più l’identità del ragazzo), l’accettazione dello sviluppo del proprio corpo, il
conseguimento di una certa autonomia emotiva dai genitori e, più in generale, dagli
adulti, la scoperta dei valori e la formazione di una coscienza etica a guida del
proprio comportamento.
I cambiamenti riguardano sia la sfera emotiva sia quella cognitiva.
Per quanto riguarda l’ambito cognitivo il ragazzo inizia a sviluppare il pensiero
ipotetico‐deduttivo, divenendo sempre più in grado di rappresentarsi le emozioni e
gli stati d’animo dell’altro, cosa che in precedenza non era possibile. Un bambino di
5‐7 anni, con una struttura mentale prevalentemente operatorio‐concreta, infatti,
non è in grado di formulare ipotesi o elaborare astrazioni, mentre il preadolescente
può compiere generalizzazioni, elaborare concetti astratti, prevedere le
conseguenze di un’azione, immaginare le emozioni di chi ha intorno. In questa fase,
il ragazzo comincia a sviluppare l’empatia verso gli altri, ma contemporaneamente,
anche uno sguardo più critico verso ciò che ha intorno, genitori e adulti compresi, ed
una crescente curiosità verso l’ambiente extrafamiliare, vissuto come fonte di
stimoli nuovi ed esperienze interessanti.
Per quanto riguarda l’ambito emotivo, la preadolescenza è un’età di
sospensione, caratterizzata dal distacco dal mondo idealizzato, fiabesco,
dell’infanzia: il ragazzo si rende conto gradualmente che i genitori non sono quegli
esseri onnipotenti percepiti dal bambino e, con l’introduzione del pensiero critico,
inizia un percorso di disillusione, attraverso il quale le figure genitoriali vengono
spogliate dell’infallibilità attribuitagli durante l’infanzia.
Il preadolescente mette in discussione la coppia genitoriale che, spesso, appare
disorientata ed addolorata di fronte a questo nuovo atteggiamento del figlio,
sperimentando, a sua volta, una sorta di disillusione nei confronti del figlio
preadolescente, di quel bambino dolce ed amorevole di cui, ora, sembra essere
sparita ogni traccia. Spesso, il genitore tende ad interpretare il nuovo
comportamento del figlio come un vero e proprio attacco personale nei suoi
confronti mentre, non riuscendo a considerare il nuovo atteggiamento del
preadolescente come un processo naturale di distacco, in qualche maniera
fisiologico perché denota uno sforzo di crescita e di sana individualizzazione della
persona. Tale processo, infatti, in situazioni di normale sviluppo psico‐affettivo, si
conclude in un’età successiva con la formazione di una personalità con
caratteristiche ed connotazioni proprie, contenenti al loro interno elementi
genitoriali (principi e sistemi di regole e valori) reinterpretati e fatti propri in modo
assolutamente personale.
Tuttavia, quando la disillusione del genitore si trasferisce al figlio e alla
relazione, si trasforma in un vero senso di delusione verso quel ragazzo che, in
quanto diverso da prima, non è più affettivamente gratificante ed, in definitiva, non
più corrispondente alle aspettative genitoriali. Tale dinamica può instaurare un
meccanismo perverso e negativo, laddove il genitore si chiude di fronte alle nuove
modalità relazionale del figlio, rifiutandole ed irrigidendosi, entrando nella sfida e
nella provocazione, arrivando, come “estrema ratio”, persino all’”espulsione”, in
senso simbolico, del figlio dalla coppia stessa.
La difficoltà principale dei genitori del preadolescente, dunque, è sembra
quella di accettare che il figlio esca dalla loro sfera di influenza diretta, che si vada
perdendo la relazione così com’era in precedenza, che il figlio cominci a prendere le
distanze da loro attraverso scelte autonome e personali, talvolta non condivisibili.
Tutto questo, naturalmente, non avviene improvvisamente o
automaticamente ma attraverso fasi di allontanamento e crescita caratterizzate
dalla richiesta di una sempre maggiore autonomia, di atteggiamenti spesso
connotati da critica e dal conflitto, alternati a movimenti di riavvicinamento e di
regressione caratterizzati dalla ricerca di rituali di accudimento e di vicinanza fisica ai
genitori.
La coppia genitoriale, pur sperimentando un certo naturale disorientamento
di fronte ai cambiamenti del figlio, può favorire le nuove esperienze e tollerare gli
atteggiamenti provocatori e sfidanti tipici del preadolescente nella certezza di
rappresentare per il figlio ancora quel riferimento interno sicuro di sempre. In
fondo, la situazione preadolescenziale, per certi versi, ricorda talvolta il processo di
acquisizione di nuove autonomie tipica del lattante quando, cominciando a
camminare e ad esplorare un ambiente nuovo, si allontana dalla madre per poi
tornare di nuovo da lei nella ricerca di rifornimento affettivo necessario a
permettergli, successivamente, una nuova esplorazione lontano da lei. È il sistema
dell’attaccamento sicuro: quando il legame genitoriale è solido e rappresenta una
fonte reale di sicurezza consente al bambino di esplorare il mondo circostante
senza timori e remore, ma permette lui anche di esprimere tutte le istanze interiori
senza paura di perdere il legame stesso.
In preadolescenza si può osservare un fenomeno analogo: il ragazzo sarà in
grado di esplorare ambiti extrafamiliari sperimentando se stesso, i propri limiti e le
proprie capacità in autonomia, serenità e curiosità solo se la coppia genitoriale gli
permetterà di agire nella quotidianità, in modo costruttivo e senza sensi di colpa, il
meccanismo di allontanamento e di riavvicinamento a loro.
Sicuramente, la preadolescenza non rappresenta una fase di facile gestione, e
spesso ci si sente incerti in relazione al proprio ruolo genitoriale e alla capacità di
contenimento del figlio. L’eccesso di libertà e autonomia, infatti, non sembra
rappresentare, così come la durezza e l’autoritarismo, una strategia educativa
vincente, in considerazione del fatto che il preadolescente va, comunque,
contenuto ed orientato e non è sempre facile capire quando e come si deve
intervenire.
La chiave risolutoria, probabilmente, è rappresentata da un atteggiamento
genitoriale fondato sulla fermezza e sull’ elasticità. Fermezza che non va confusa con
rigidità o autoritarismo: essere genitori fermi significa dare regole condivise, chiare e
coerenti (possibilmente in accordo tra i genitori) manifestando anche una certa
elasticità nell’applicazione in considerazione delle istanze che il ragazzo porta e che,
spesso, comportano una rinegoziazione delle regole precedenti, ormai superate
perché riferite ad un’epoca passata, l’infanzia.
L’elasticità non implica, di per sé, una tendenza al lassismo, lasciando fare al
figlio qualsiasi cosa, ma significa concedere piccole deroghe alle regole ed essere
disponibili ad accogliere seppure in parte ma soprattutto ad ascoltare, le richieste
del preadolescente, riconoscendolo nelle istanze che esprime. In tal modo, le figure
genitoriali continueranno a rappresentare per il preadolescente un riferimento
importante, sicuro e stabile, i cui insegnamenti e sistemi valoriali, costruiti insieme
fin dalla nascita, guideranno le sue scelte ed i suoi comportamenti. In questo senso,
il ruolo genitoriale non è in discussione.
Rendersi, dunque, disponibili ad ascoltare ed accogliere le istanze del figlio,
dimostrando di “tollerare” e di riuscire a “resistere” a questa sua continua
richiesta, talvolta rabbiosa, di autonomia e crescita, diventa molto importante e
rimanda al preadolescente un’immagine positiva di sé, non autopercependosi né
“cattivo” né “distruttivo” nei confronti dei genitori stessi.
Riconoscendo il “figlio arrabbiato”, perciò, così sarà meno difficile entrare in
relazione con lui: attraverso l’accoglienza ed il riconoscimento del suo stato
d’animo, sarà poi possibile intervenire, all’interno del rapporto, sulle modalità di
espressione delle istanze interne e sul contenimento degli “inevitabili” eccessi, in
una relazione costruttiva che si incardina su due piani, uno emotivo di comprensione
e disponibilità all’ascolto, ed uno pragmatico riguardante l’espressione, la
canalizzazione ed il contenimento dell’emozione. Ogni genitore capace di accogliere
e contenere le emozioni non permette al figlio di percepirsi inadeguato, distruttivo
o negativo.
La percezione della disponibilità dei genitori nei confronti delle sue istanze e
delle sue richieste rende capace il figlio di valorizzare la coppia genitoriale,
valutandone realisticamente limiti e capacità, riuscendo, in tal modo, ad accedere al
complesso processo di riconoscimento ed accettazione anche dei propri limiti e
delle proprie capacità e potenzialità.
Qual è dunque il senso del conflitto? È una modalità necessaria per elaborare la
propria individualità rispetto al modello genitoriale. Il conflitto non va esaltato, non
gli va attribuita un’importanza enorme, ma non va neppure negato. È importante
consentire al figlio l’esperienza del dissenso, del conflitto, evitando atteggiamenti
tipici del “genitore‐amico” che, in un’ottica paritetica e di condivisione totale,
accetta ogni comportamento filiale, alleandosi con il preadolescente e, di fatto,
evitando di agire il suo ruolo genitoriale: attraverso il conflitto, il preadolescente
esprime il suo desiderio di crescere, di diventare autonomo e diverso dai genitori, il
cui sforzo deve essere quello di considerare il significato che si cela dietro ad ogni
comportamento oppositorio e provocatorio, a volte, aggressivo,i
percritico,esagerato.
In conclusione, per affrontare l’epoca preadolescenziale dei nostri figli, è
necessario sperimentare dentro di sé tolleranza, ascolto empatico, riconoscimento
delle istanze del figlio e accettazione dei cambiamenti nella relazione genitori/figlio.
Ciò che deve arrivare al ragazzo è la certezza di essere amato, di essere
benvoluto, in una sorta di accettazione aprioristica e totale di ciò che è e
rappresenta per noi genitori. In quest’ottica, va collocata la tolleranza nei confronti
dei comportamenti che il preadolescente esprime: “riesco a tollerare i tuoi attacchi
perché so che tu mi ami. Tu mi stai bene sempre, anche quando sbagli”. Evitare
giudizi, critiche dirette e richieste di essere “perfetti” o diversi, implica da un lato, la
consapevolezza che anche noi adulti possiamo sbagliare e dall’altro, che l’errore non
rappresenta drammaticamente la rottura del legame, ma un’occasione di confronto
dialettico, anche emotivamente forte, in direzione sempre di una crescita comune.
“Non sei tu sbagliato, ma è il tuo comportamento che lo è”
È importante, da parte della coppia genitoriale, costruire e trovare anche
occasioni di ascolto empatico al fine di offrire uno spazio di ascolto privilegiato al
preadolescente, del tempo riservato solo per lui nell’idea di permettergli di
esprimere il suo mondo emotivo, i suoi vissuti e le sue sensazioni privilegiando la
dimensione interiore a quella concreta e quotidiana. Ad esempio, in risposta ad una
comunicazione circa la scuola o gli amici, si potrebbe chiedere “In quella situazione
(a scuola o con gli amici) Cosa hai pensato? Cosa hai provato? Come ti sei sentito?” ,
invece di “cosa hai fatto, come sei andato a scuola? che voto hai preso? perchè hai
preso la nota??”.
Diventa essenziale dare spazio all’emotività, ai sentimenti e ai vissuti interiori,
consapevoli che in preadolescenza si forma l’identità di una persona e che
l’immagine di Sè deve essere il più possibile positiva e ricca di sfaccettature, il
prodotto dell’integrazione di vari aspetti della personalità. Se il ragazzo si sentirà
compreso e riconosciuto per ciò che esprime, saprà tollerare meglio il commento e
la critica, così come le frustrazioni, manifestando un certo grado si sicurezza e
stabilità interiore. La regola educativa, che ha prevalentemente una funzione di
contenimento emotivo, così come la punizione, andrebbe applicata attraverso
modalità costruttive ‐ spiegandone ogni volta fine e motivazione, come conseguenza
di un comportamento non adeguato ‐ prendendo sempre in considerazione anche
il dispiacere e la frustrazione che comporterà, tenendo presente che è importante
offrire lo spazio per poter riconoscere, esprimere e contenere sentimenti di
sofferenza e dolore.
Anche nelle dinamiche tra fratelli, sempre altamente ambivalenti e
conflittuali, il genitore non si deve porre nell’ottica di tutelare uno o l’altro dei suoi
figli, con la conseguenza di attribuire ruoli stereotipati e fissi di colpevole e vittima,
ma dovrebbe impegnarsi per favorire il miglioramento dei rapporti tra fratelli sulla
base di un riconoscimento delle cause scatenanti le dinamiche conflittuali offrendo
a ciascuno lo spazio per esprimere bisogni ed istanze evitando contrapposizioni e
competizioni su base affettiva.
Per i genitori dei preadolescenti, un aspetto importante da considerare, è
quello di rimettere la coppia al centro della dinamica familiare ristabilendo nuovi
equilibri, nello spazio lasciato libero dal figlio che non è più interessato ad occupare
totalmente, così come nell’infanzia. Di fronte ad una coppia genitoriale solida, coesa
ed appagata, il figlio è libero di allontanarsi senza percepire come pericoloso e
colpevole il proprio distacco, avendo la possibilità di osservare, al contempo, una
relazione di coppia che, pur non avendo affatto abdicato al ruolo genitoriale, non lo
intrappola al suo interno attraverso meccanismi invischianti e regressivi.

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